venerdì 27 giugno 2014

Le Proposte della Biblioteca: La Grande Guerra

Il secondo appuntamento dell' iniziativa Le Proposte della Biblioteca. Percorsi tematici della biblioteca con libri, periodici, documenti multimediali e materiali disponibili in rete è dedicato alla proposta "La Grande Guerra"in occasione del 100° anniversario dello scoppio della prima guerra mondiale, che si celebra il 28 luglio 2014.

L'iniziativa prevede percorsi tematici di diverso genere nell’area ingresso/banco prestito della biblioteca, con libri e documenti multimediali del catalogo della Fondazione per Leggere, integrati, grazie alla biblioteca digitale MediaLibaryOnLine e all’utilizzo dei social media del servizio biblioteca 2.0, da materiali digitali e risorse disponibili in rete con l'obiettivo di promuovere la lettura e la fruizione di tutte le tipologie di materiali disponibili in biblioteca,  diffondere  la cultura in tutte le sue forme e linguaggi espressivi, favorire la sensibilizzazione degli utenti e dei cittadini su tematiche e argomenti di interesse generale,  anche in occasione di eventi  speciali di particolare rilievo  promossi da enti, organismi ed istituzioni nazionali ed internazionali, pubbliche e private e/o anniversari, ricorrenze e celebrazioni e su cui l’Amministrazione intenda focalizzare l’attenzione, offrendo agli utenti  documenti e materiali per informazione, studio, ricerca e approfondimento.

I documenti e i materiali del percorso "La Grande Guerra" sono disponibili a partire da martedì 1 luglio fino a lunedì  1 settembre:

- in biblioteca area ingresso:   libri e materiale multimediale* (dvd film e documentari) del catalogo della FPL da prendere in prestito

- sulla pagina anobii della Biblioteca: tutti i libri del percorso proposto: una selezione di saggi, diari, testimonianze, romanzi (etichetta: La grande guerra)  e di libri per ragazzi (etichetta: La grande guerra  ragazzi) 

sulla pagina delicious: elenco di link siti d'interesse relativi al percorso (TagBundles: La grande guerra)

- su Medialibraryonline: ebook

Il materiale multimediale (film e documentari) proposto nel percorso è il seguente:

Film

- All'ovest niente di nuovo (1930) di L. Millestone
- La grande illusione (1937) di J. Renoir
- Orizzonti di gloria (1957) di S. Kubrick
- La grande guerra (1959) di M. Monicelli
- Joyeux Noel (2005) di C. Carion
- Giovani aquile (2006) di T. Bill

Documentari

- Gloria: la grande guerra (2001) - Istituto Luce
- 1915: cinque modi di andare in guerra (2008)
- La grande guerra 1914-1918 (2008)






















16 commenti:

  1. La celebrazione di questo centenario dovrebbe a mio parere cercare di capire come siano andate veramente le cose per chi c’era, rifuggendo tanto l’epopea e il mito, da un lato, quanto manichini, teatranti e rievocazioni kitsch, dall’altro.

    Per orientarmi nelle mie letture sulla prima guerra mondiale mi sono rivolta a quella storiografia che ha posto al centro della sua analisi l’essere umano, per questo, penso che sull’argomento sia imprescindibile il seguente testo:

    • Antonio Gibelli, “L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale”, Bollati Boringhieri, 1991.

    Gibelli ha dedicato una vita allo studio delle scritture della gente comune. In Italia fu tra i primi a sostenere che alle vicende della grande storia era necessario riconnettere le esperienze dei singoli, e che questo tipo di analisi storica non poteva prescindere dallo studio delle scritture popolari. È questo l’approccio alla Grande Guerra che troviamo nel libro.

    Senza tentare di dare conto dell’ampiezza dell’opera, mi sento di dire che il vero protagonista del libro è il soldato comune, alle cui scritture (diari, appunti, corrispondenza) l’autore dedica molta attenzione. La scrittura è attività che doveva costare molta fatica ai fanti di allora, vista la poca dimestichezza da parte dei più con libri e lettura. Come si spiega, allora, la volontà di fissare per iscritto i pensieri e le reazioni a quegli accadimenti? La scrittura, scrive Gibelli, non è da inquadrarsi solo come testimonianza dei fatti e come consapevolezza dell’eccezionalità dell’evento vissuto sulla propria pelle, la scrittura è soprattutto tentativo di affermare la propria individualità, di uscire dalla massa spersonalizzata cui la guerra moderna confinava il soldato: lo scrivere come atto di eversione e di diserzione, come fuga dalle atrocità, come presa di distanza dalla guerra stessa. “La cultura scritta”, aggiunge l’autore citando Furet e Ozouf, “è riservata e personale, è un silenzio nel quale l’individuo scava autonomamente un libero spazio privato.”

    Un semplice elenco dei più importanti temi proposti dall’autore dà l’idea del portato demitizzante del libro e della sua forza di rottura con la storiografia precedente: diserzioni, autolesionismo, malattie psichiatriche sono fenomeni studiati partendo dall’analisi di materiale fino ad allora ritenuto poco canonico, come, per esempio, le cartelle psichiatriche di alcuni ricoverati.

    Il libro è accessibile a tutti e si legge senza fatica perché l’autore rifugge le astruserie e sa farsi capire. Segnalo che l’opera è presente, e disponibile al prestito, nel catalogo di Fondazione per Leggere:


    http://catalogo.fondazioneperleggere.it/webopac/TitleView/BibInfo.asp?BibCodes=124850187


    Mariangela

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  2. Ma, secondo voi, la storia si può effettivamente studiare partendo dall’individuo? Possono veramente le lettere, i diari, gli appunti, le scritture della gente comune, e perché no, le fonti orali, al di là del coinvolgimento emotivo che sicuramente provocano, fungere da ponte tra essere umano e grande storia e aiutare lo storico a risalire alla visione d’insieme? Se questo materiale possa venire considerato fonte per la storia è materia di dibattito anche in storiografia ed è, tra le altre cose, l’oggetto di uno studio di Fabio Caffarena sulle scritture popolari e la Grande Guerra:

    • Fabio Caffarena, “Lettere dalla grande guerra. Scritture del quotidiano, monumenti della memoria, fonti per la storia. Il caso italiano”, Unicopli, 2005, presentazione di Antonio Gibelli.

    È opinione dell’autore che lo studioso di storia contemporanea debba occuparsi dell’individuo, della sua soggettività, delle sue emozioni e che, per farlo, debba addentrarsi in quel territorio minato che sono, appunto, le scritture popolari autobiografiche, lì troverà, se saprà usare tutta la cautela e le precauzioni del caso, le interazioni tra le biografie degli uomini comuni e il quadro storico generale.

    Il nome del curatore della presentazione potrebbe insospettire e indurre a pensare che ho cercato la risposta al mio quesito là dove sapevo di trovare quella che, a priori, avevo già fatta mia (vedi il mio commento qui sopra al testo di Gibelli “L’officina della guerra. La Grande Guerra e le trasformazioni del mondo mentale”). Può essere, rientra nel gusto della lettura cercare conferme alle proprie opinioni, ma è giusto evidenziare che l’autore non manca di porsi in modo dialettico rispetto alla sua tesi: Caffarena espone in modo puntuale anche le teorie di quegli storici che non sono fautori della storia “dal basso” e che non concordano con lui. Tra i tanti (la bibliografia di questo libro è veramente una miniera per chi voglia approfondire lo studio culturale della Grande Guerra), Caffarena cita anche quegli autori che temono che questo metodo d’analisi possa favorire l’ipertrofia della memoria, memoria che rischierebbe di celebrare se stessa e supplire alla storiografia, creando confusione e malintesi. Sempre secondo questa scuola di pensiero ricordata dall’autore, la sopravalutazione delle scritture autobiografiche rispetto alle fonti archivistiche favorirebbe un eccesso di soggettività, una sorta di ego-storia che non produrrebbe una riflessione storica seria e ponderata.

    Visto che il lettore ha sempre il diritto di dire la sua, anche quando non è esperto in materia, io mi esprimo a favore delle conclusioni dell’autore: Caffarena scrive che, per quello che riguarda la Grande Guerra, si può decisamente scongiurare che un eccesso di memoria abbia influenzato la storiografia o la memoria collettiva; la prima ha studiato, per decenni, soprattutto gli aspetti politici diplomatici e militari del conflitto, la seconda, la memoria collettiva entrata nell’identità nazionale, è, semmai, ancora inquinata dal mito nel quale si affastellano nomi di luoghi e di battaglie, divenuti nel corso di questi cent’anni epici, ma non per questo più studiati o meglio conosciuti dagli italiani.

    Mariangela

    Anche questo titolo è presente e disponibile al prestito nel catalogo di Fondazione per Leggere.

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  3. Visto che ho apprezzato l’autore e il suo modo di scrivere, ho voluto vedere anche un altro libro di Antonio Gibelli:

    • Antonio Gibelli, “La Grande Guerra degli italiani 1915-1918”, BUR, 2014.

    È un libro interessantissimo e accattivante, la narrazione è accessibile a tutti, il testo è chiaro e scorrevole, la lettura piacevole, i contenuti di sostanza. È la riprova che la saggistica, oltre che istruirci, può intrattenerci e divertirci tanto quanto la narrativa (Il titolo è presente in due diverse edizioni nel catalogo di Fondazione per Leggere).

    Ho scorso l’indice, ho trovato un argomento di cui avevo solo vagamente sentito parlare (non scandalizzi la disorganicità dell’approccio, ognuno comincia un libro da dove vuole) e ho deciso di iniziare da quel triste capitolo: la violenza sulle donne friulane e venete durante l’occupazione austro tedesca dopo la rotta di Caporetto.

    Gibelli spiega che durante la prima guerra mondiale il primato temporale della violenza sessuale spetta ai tedeschi che, già negli ultimi mesi del 1914, avevano brutalizzato le donne belghe e francesi nei territori occupati. È però delitto che diversi eserciti di occupazione perpetrarono: i serbi denunciarono per stupri gli austriaci, gli austriaci accusarono i russi per i fatti avvenuti in Galizia, i tedeschi denunciarono gli inglesi, i francesi e, per le violenze nella Prussia Orientale, i russi.

    Il capitolo è da leggere perché riporta le relazioni della Regia Commissione d’inchiesta che indagò sulle violenze nell’immediato dopoguerra, nel 1919, e perché illustra il dibattito che già durante il conflitto scaturì dalle vicende belga e francese sia nel mondo politico sia in quello medico scientifico.

    Dalle testimonianze rese alla Commissione, emerge tutta la brutalità delle violenze sessuali commesse nelle zone del Regno occupate dopo Caporetto: i casi furono numerosissimi; le violenze erano commesse in gruppo e spesso ripetute; bambine, anziane e inferme non venivano risparmiate; allo stupro spesso si aggiungevano torture e atti di sadismo gratuito anche a danno dei famigliari.

    Le reazioni della propaganda e del mondo scientifico ai fatti del 1914 sconfinarono in certi casi dall’eugenetica per lambire l’istigazione all’infanticidio: alla domanda se le donne avessero il diritto di disfarsi del frutto del concepimento, qualcuno rispose che non era un diritto da riconoscere alle donne quali individui che erano state oggetto di violenze, ma un dovere da imporre alla collettività: era necessario evitare che il nemico tedesco germanizzasse i paesi che voleva annettere inquinandone le popolazioni.

    Mariangela

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  4. Una doverosa aggiunta al mio commento che precede sugli stupri durante la Grande Guerra: ho trovato nella bibliografia un commento di Gibelli che sottolinea l’incredibile assenza di studi su questo dolorosissimo capitolo della guerra in Italia: nessuno si è occupato della violenza sulle donne, neppure quegli storici che hanno trattato dell’occupazione austro tedesca delle regioni italiane.

    Pur ricordando che “La Grande Guerra degli italiani” è del 1998 (la recentissima nuova edizione BUR ripropone il testo di allora), non si può non prendere nota con sconcerto di questa lacuna: come scrive lo stesso Gibelli, gli atti della Regia Commissione d’inchiesta del 1919 c’erano e i volumi IV e VI erano lì a testimoniare delle denunce delle vittime. Per quanto questo vuoto sia stato colmato nel frattempo dalla storiografia più recente, rimane il fatto che un silenzio così protratto su un tale argomento è scandaloso. Si può ben dire: violentate due volte, dagli occupanti e dalla dimenticanza.

    Mariangela

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  5. Apprendo da

    http://www.cinetecadelfriuli.org/cdf/home/spazio_Gaberscek/Mariute.html

    che la vicenda delle violenze sessuali dopo Caporetto è stata oggetto di ricerche relativamente recenti da parte di alcuni storici, tra i cui nomi, significativamente, ritrovo anche quello di Gibelli.

    Il link, tra le altre cose, parla anche di un film del 1918, “Mariute”, nel quale la “diva” Bertini interpreta sia se stessa, sia la parte di una contadina violentata da un gruppo di soldati invasori.

    Per i particolari rimando all’articolo, da parte mia solo una considerazione: anche per la prima guerra mondiale, pur con i pesanti limiti derivanti dagli scopi propagandistici, è la filmografia a ricordare le violenze subite dalle donne; il paradosso si ripeterà dopo il secondo conflitto mondiale, è stata la “Ciociara”, e non la storiografia, a raccontarci per prima l’orrore degli stupri subiti da migliaia di donne lungo la linea Gustav; gli storici affronteranno l’argomento solo qualche decennio più tardi, e non solo a causa del pudore e la reticenza delle vittime.

    Mariangela

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  6. Anche prima di leggere i resoconti degli storici, avevo facilmente immaginato che i patimenti delle donne italiane stuprate dopo la rotta di Caporetto fossero stati relegati in secondo piano nel dibattito culturale dell’immediato dopoguerra. Visti i presupposti culturali dell’epoca, era da escludere che le violenze subite dalle donne potessero venire inquadrate come delitti di genere e che il danno fisico e psicologico da loro subito potesse ricevere adeguata considerazione: nella mentalità del tempo, come spiegano gli esperti, lo stupro di guerra assumeva rilevanza in quanto perturbatore dell’ordine familiare e perché lesivo dell’integrità della nazione.

    Quello che invece non conoscevo, e che non ero riuscita ad immaginare neppure tenendo conto della temperie culturale di allora, è il trattamento riservato alle donne stuprate dagli invasori e ai bambini nati a seguito delle violenze negli anni che seguirono la conclusione del conflitto. La lettura di un articolo di Andrea Falconer ([PDF]Gli “orfani dei vivi”. – Università Ca) ha colmato la lacuna informativa e il deficit di immaginazione.

    Senza togliervi il piacere di leggere l’articolo (piacere storico, perché, nonostante le premesse, io l’ho trovato piuttosto straziante), dico solo che mi hanno molto colpita la violenza e lo scherno di cui furono oggetto “i figli della colpa”, i figli nati dai concepimenti forzati, spesso soprannominati “tedeschini” (poteva accadere che fossero le autorità statali a chiederne il ricovero per sottrarli ai maltrattamenti cui erano sottoposti in famiglia) e la pressione esercitata sulle madri perché abbandonassero talvolta anche contro la loro volontà le loro creature.

    Su questi argomenti offre interessante materiale di approfondimento un intervento di Barbara Montesi in un libro che è disponibile al prestito nel catalogo di Fondazione per Leggere:

    • Barbara Montesi, ””Il frutto vivente del disonore”. I figli della violenza, l’Italia, la Grande Guerra”, in “Stupri di guerra. La violenza di massa contro le donne nel Novecento”, Marcello Flores (a cura di), Angeli, 2010, (pp.61/78).

    Mariangela

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  7. Tra i libri che mi hanno fatto capire molte cose sulla prima guerra mondiale e sul suo significato politico, mi piace ricordare un titolo non recentissimo ma fondamentale nella storiografia italiana sulla Grande guerra (il volume, ammesso al prestito, è presente in più copie nel catalogo di Fondazione per Leggere):

    • “Plotone di esecuzione: i processi della prima guerra mondiale” a cura di Enzo Forcella, Alberto Monticone, Laterza, 1998.

    Dati alla mano, gli autori dimostrano che la percentuale delle condanne –condanne che i tribunali di guerra italiani infliggevano a soldati italiani – era mediamente molto più alta che nelle forze armate degli altri paesi; la disciplina militare, severissima, si accaniva anche in mancanza di prove contro i sospettati di disfattismo e di antipatriottismo.

    Mi ha colpito, in particolare, apprendere che causa di molte condanne fu il reato postale: la diffusione di notizie tendenti a denigrare o a diffamare le operazioni di guerra poteva essere punita molto severamente. Le lettere dal fronte che ci vengono presentate in molte raccolte, come aveva già notato Gramsci, sono state in precedenza vagliate dalla censura e opportunamente purgate.

    È uno dei libri che hanno contribuito alla demitizzazione della Grande Guerra: qui non ci sono eroi che combattono per la patria, qui si legge di soldati italiani giustiziati dalla giustizia militare italiana.

    Mariangela

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  8. Che l’età di un albero si potesse dedurre dai cerchi del fusto analizzato in sezione, è nozione scolastica nota e non dimenticata, ma che questa analisi potesse rivelarci, anche, i disturbi subiti dalla pianta nel periodo della prima guerra mondiale, è una scoperta fuori dalla mia portata perché tendo a dividere in compartimenti stagni le informazioni storico letterarie da quelle scientifiche.

    Mi sento di segnalare il libro nel quale ho letto di questa ricerca, che, appunto, ha avuto ad oggetto lo stress subito dagli alberi in una foresta trentina durante la Grande Guerra, proprio perché mi ha aiutato a capire anche i danni ecologici del conflitto:

    • Marco Armiero, “Le montagne della patria. Natura e nazione nella storia d’Italia. Secoli XIX e XX”, Einaudi, 2013, (Cap. 3 “Montagne eroiche”, p.92/112).

    (l’opera, anche in questo caso, è presente in diverse biblioteche del sistema di Fondazione per Leggere e può essere richiesta in prestito)

    Il patrimonio forestale italiano fu particolarmente danneggiato dalla guerra perché all’Italia era venuta meno l’importazione di legname da quei territori che si trovavano nell’area dell’Impero asburgico. Gli ettari di bosco andati perduti a causa del conflitto ammontano a diverse decine di migliaia: il legno era rifornimento di guerra a tutti gli effetti, serviva per la costruzione delle trincee, dei baraccamenti, dei pali del telegrafo, in certi casi, anche dei ponti (viene riportato il caso dell’antico bosco di Fontana, un tempo terreno di caccia dei Gonzaga, saccheggiato per costruire i ponti sul Piave) . Ai danni diretti, causati dalle operazioni belliche, si aggiungevano quelli indiretti: il legname danneggiato e non sgombrato era spesso causa di infestazioni di insetti xilofagi che, a loro volta, rendevano necessario l’abbattimento di altri alberi.

    È provato che il legname proveniente da determinate aree di guerra, come quello delle foreste della Somme e della Lorena, significativamente denominate “bois mitraillés”, ha presentato a lungo un tasso di ferro e di residui bellici molto alto. In altre zone, si è dovuto per molto tempo passare il legname al metal detector prima di inviarlo in segheria per evitare incidenti di lavorazione causati da residui bellici rimasti inglobati nelle piante.

    Nella prima parte del capitolo l’autore afferma che la montagna è stata danneggiata tanto dai colpi di artiglieria, dagli incendi e dal disboscamento quanto dalle parole; fa riferimento alla politica culturale, cominciata già durante il conflitto e accentuata poi dal regime fascista, che ha voluto presentare le Alpi e i suoi abitanti in chiave eroica e nazionalistica. Anche questo aspetto è trattato in modo spedito ed efficace come, del resto, tutti gli altri argomenti presentati nei rimanenti capitoli del libro. Se cercate l’interdisciplinarità, questo libro fa per voi.

    Mariangela

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  9. Il catalogo di Fondazione per Leggere propone un libro fotografico che da appassionata del genere non potevo tralasciare di vedere; non ho avuto modo di leggerlo per intero, ma è valsa la pena anche solo leggerne qualche pagina e meditare sulle immagini: le fotografie sono quanto mai eloquenti, la dicono lunga sul coinvolgimento dei civili, sull’abbrutimento, sulla vita di trincea. Secondo me è un bel libro.

    • Emilio Gentile, “Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine di un mondo. Storia illustrata della Grande Guerra”, Laterza, 2014.

    In questo libro ho trovato nomi di interventisti che non conoscevo come tali, ho scoperto quello di Thomas Mann che non sapevo essere fautore della guerra.

    Mariangela

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  10. Di Antonio Gibelli, che ormai ho eletto a punto di riferimento nel mio percorso di lettura sulla Grande Guerra, ho trovato un’introduzione a un libro scritto da due studiosi francesi. Il volume è presente e ammesso al prestito presso la biblioteca Centrale Sormani e numerose biblioteche Rionali del Sistema Bibliotecario di Milano:

    • Stephane Audoin-Rouzeau, Annette Becker “La violenza, la crociata, il lutto: la Grande Guerra e la storia del Novecento”, Einaudi, 2002, introduzione di Antonio Gibelli.

    L’introduzione di Gibelli non si limita a riassumere i concetti messi a punto dallo studio di Becker e Audoin-Rouzeau; merita a mio parere di essere letta perché, nel proporre i contenuti del libro, lo storico li integra con gli esiti della ricerca della storiografia italiana (attestata su posizioni di avanguardia sull’argomento) e non omette di muovere agli autori qualche rilievo.

    Le precisazioni di Gibelli rispetto a quanto sostenuto dai due autori si incentrano soprattutto attorno ai seguenti punti:

    • La violenza che si scatenò durante il conflitto fu, sì, inaudita, ma non del tutto inedita: lo sterminio di massa era già stato praticato nelle guerre extraeuropee, era però stato rimosso perché vittima delle nuove armi di morte erano stati individui non bianchi e non europei.

    • Gibelli sostiene che le testimonianze dei combattenti sono una fonte importantissima che, soprattutto per quel che riguarda la Francia, aspetta ancora di essere studiata. Si riferisce a quelle testimonianze frammentarie, nascoste, a quelle meno sorvegliate rispetto alle lettere, come i quaderni, i diari, gli appunti sparsi. In questo senso prende le distanze dai suoi autori che, pur lamentando a ragione un inquinamento della memoria da parte della memorialistica ufficiale, quella che ha concorso a plasmare l’epopea della Grande Guerra, hanno a suo parere omesso di analizzare il materiale francese, pur disponibile, scritto di pugno dei combattenti.

    • Gibelli concorda con gli autori (in termini generali, ma non senza precisazioni) sulla necessità di superare l’immagine vittimistica che tende a vedere le masse europee unicamente come vittime innocenti e incolpevoli della propaganda, quasi questa fosse stata imposta dall’alto senza avere precisi riscontri negli umori degli individui. L’introduttore, dal canto suo, puntualizza che proprio l’analisi della documentazione autografa menzionata al precedente punto potrebbe meglio chiarire il rapporto delle popolazioni con il conflitto e meglio precisare la portata del rifiuto che, se pur non riuscì a contrastare efficacemente il consenso, ci fu e crebbe fin dai primi mesi di guerra sia tra i combattenti che tra i civili.
    La ricerca su detto materiale consentirebbe inoltre, secondo Gibelli, di rinvenire testimonianze non edulcorate sugli aspetti ritenuti indicibili della guerra: la bestialità dettata dall’istinto di sopravvivenza, il contatto con i cadaveri, la violenza sessuale.

    L’introduzione di Gibelli, da sola, vale il libro proprio perché, pur muovendo in certi punti aperte critiche allo studio dei due storici francesi, ne riconosce il valore e ne invoglia la lettura.
    Mariangela

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  11. Presso la Biblioteca Centrale Sormani del Sistema Bibliotecario di Milano sono presenti e ammessi al prestito alcuni cataloghi di mostre che, proprio grazie al loro apparato iconografico, della Grande Guerra mi hanno fatto comprendere molte cose. Ne ho scovato uno di una mostra tenutasi a Udine nel 2006:

    •“La Grande guerra nei giornali illustrati e nelle poesie di Giuseppe Ungaretti: collezione Isolabella”, a cura di Andrea Tomasetig, Provincia di Udine, Assessorato alla cultura, 2006.

    Il taglio multidisciplinare e l’assoluta assenza di scopi celebrativi sono le caratteristiche che in questo catalogo (purtroppo non ho visitato la mostra) mi hanno favorevolmente impressionata.

    La particolarità dell’esposizione constava nel fatto che i curatori, accanto ai disegni originari delle illustrazioni apparse durante il conflitto su giornali e riviste (volte a suscitare nei lettori il fervore patriottico), hanno esposto, a mo’ di contraltare antiretorico, trenta poesie, ingrandite, di Giuseppe Ungaretti (nel 2006 cadeva il novantesimo anniversario della prima edizione di Porto Sepolto).

    Per quanto riguarda le illustrazioni, il libro mostra bene come tutte fossero improntate alla più scontata retorica bellica; l’unica eccezione è quella di Giuseppe Scalarini, l’illustratore dell’Avanti, che si espresse, in mezzo al profluvio di adesioni all’interventismo, contro la guerra e il militarismo.

    L’idea di esporre anche le liriche del grande poeta, che pur era stato interventista (“Erano bubbole”, scriverà più tardi Ungaretti, “ma ogni tanto gli uomini si illudono e si mettono in fila dietro le bubbole”), non risponde solo all’esigenza di far capire che Udine è stata capitale della Grande Guerra anche sotto il profilo culturale e non solo militare, ma rappresenta, anche, l’antidoto più esplicito ed efficace al militarismo e al nazionalismo espresso dalle immagini.

    Il catalogo ci racconta, inoltre, aneddoti, magari noti, ma importantissimi per la storia della letteratura italiana: come è riuscito il fante Ungaretti del XIX Fanteria, impegnato in trincea, a far pervenire allo Stabilimento Tipografico di Udine le poesie che poi sarebbero state pubblicate, nel 1916, nella raccolta “Porto Sepolto”? Le scriveva sui margini dei giornali, su foglietti, su cartoline in franchigia, negli spazi bianchi delle lettere ricevute, le affidava al tenente Ettore Serra che, riposto il materiale nella bisaccia, le consegnava poi al piccolo editore udinese.

    In mostra non mancava una chicca: il foglio manoscritto autografo contenente la prima stesura della lirica “Militari”. Le poche e scarne parole di questa poesia, famosissima, ben possono assurgere ad emblema della fragilità e della precarietà umana e, al contempo, ricordarci l’inutilità della guerra

    “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”
    Mariangela

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  12. È mio destino consolarmi con i cataloghi delle mostre che scopro di aver perso; sempre in Sormani ho trovato quello di una mostra che illustrava il ruolo che le donne hanno avuto durante il conflitto:

    • “Donne nella Grande Guerra”, Libreria Editrice Goriziana, 2012. (Pubblicazione realizzata a corredo della mostra tenuta a Gorizia, nel 2012)

    Sul ruolo delle donne nella prima guerra mondiale – argomento vastissimo e meritevole di ben altri approfondimenti – non mancano pubblicazioni uscite per la ricorrenza, ma questo catalogo, nella sua sobrietà, mi è piaciuto per come va subito al cuore del problema: smantella senza indugio tanti luoghi comuni che spesso hanno accompagnato l’apprendimento della storia patria.

    Faccio solo un esempio: avevo spesso sentito parlare delle portatrici carniche e l’aura di fervore patriottico che le circondava nelle celebrazioni ufficiali non mi aveva mai convinta appieno.

    Il catalogo, specificando che l’impiego di manodopera femminile ha interessato in modo intensivo tutta la linea del fronte, spiega che gli abitanti dei paesi di confine (Timau, Forni, Avoltri, Cleulis) erano stati evacuati subito dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia. Ritenuti austriacanti – si temeva la loro possibile collusione col nemico asburgico – questi friulani vennero costretti ad abbandonare le loro case e il loro bestiame, già nel maggio del 1915. Qualche mese più tardi lo Stato Maggiore ci ripensa, concede loro di ritornare a condizione che mettano a disposizione la loro forza lavoro a favore dell’esercito. Cooperare con le attività belliche, nel caso di queste donne, rifornire le truppe ad alta quota, era quindi la condizione per evitare lo sfollamento coatto e poter rimanere a casa propria.

    Spiegare che le motivazioni delle portatrici carniche non sono state solo e unicamente patriottiche, ma che in parte possono essere dipese dalla contingenza storica e che la loro collaborazione è stata anche dettata da bisogno, se non da coercizione, non toglie nulla al sacrificio e all’eroismo di queste donne, ma, semmai, ai miei occhi, lo accresce.

    In certi punti del catalogo i testi scritti da diversi autori sembrano un po’ slegati tra loro, ma i contenuti, a mio parere, sono validi.
    Mariangela

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  13. Sempre alla Sormani, ho trovato disponibile al prestito il catalogo pubblicato in quell’occasione e mi permetto di segnalarlo perché l’ho trovato istruttivo e divertente:

    • Lamberto Pignotti, “Figure d’assalto. Le cartoline della Grande Guerra. Dalla collezione del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto”, Rovereto, Museo Storico Italiano della Guerra, Editrice La Grafica, 1985.
    (Serie e inventario: 508263 Collocazione: GEN.P.62)

    Nelle poche pagine introduttive, Pignotti accompagna il lettore nella sua visita “cartacea”, spiega l’uso che della cartolina ha fatto la propaganda di guerra di tutti i paesi (in mostra c’erano cartoline stampate in diverse nazioni belligeranti) e ne illustra l’iconografia ricorrente: ovunque aquile in picchiata, cavalli al galoppo, stemmi araldici, fronde di quercia e di alloro, ritratti di regnanti (abbrutiti o aureolati a seconda dello schieramento di appartenenza).

    Qui riporto solo un punto. Pignotti sta illustrando la rappresentazione dell’Italia come figura femminile, quella bella signora con le curve in rilievo e le rotondità debordanti da pepli e camicioni, che già dal 1861 è spesso incaricata di simboleggiare la neonata nazione. Per meglio rendere l’idea il curatore ricorre a una citazione di Donandei che ho trovato azzeccata:

    “È una donna alta, bene in carne, con una corona turrita sulla chioma. Ha poppe turgide e un volto che rivela l’estrazione popolana, quando non addirittura equivoca, delle modelle care ai pittori. Questa scelta non è casuale (…) soltanto con un’immagine di femmina così terrena, concreta, disponibile, si può sollecitare dedizione, promuovere slanci patriottici. Per l’Italia popputa, carnosa, invitante fra le pieghe del peplo quasi sempre dischiuso, si può anche morire” (Mario Donadei, “L’Italia delle cartoline: 1848-1919”, L’Arciere, 1977).
    Mariangela

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    1. Scusate, al commento manca il "cappello", era rimsto per sbaglio nel mouse!

      • Lamberto Pignotti, “Figure d’assalto. Le cartoline della Grande Guerra. Dalla collezione del Museo Storico Italiano della Guerra di Rovereto”, Rovereto, Museo Storico Italiano della Guerra, Editrice La Grafica, 1985.
      (Serie e inventario: 508263 Collocazione: GEN.P.62)

      Quando nell’autunno del 1985 si è svolto a Rovereto il convegno “La Grande Guerra: esperienza, memoria, immagini“, i cui atti sono ancora oggi uno snodo fondamentale per la storiografia sulla prima guerra mondiale, il Museo Storico Italiano della Guerra ha colto l’occasione per mettere in mostra parte del proprio materiale iconografico: sono state esposte al pubblico le cartoline di guerra.

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  14. Grazie al ricco patrimonio librario presente alla biblioteca Centrale Sormani, ho potuto rivolgermi a un libro uscito qualche anno fa in tempi lontani dalla ricorrenza del centenario della Grande Guerra, edito da una casa editrice di confine, la Gaspari Editore di Udine:

    • Marco Mantini, “Da Tolmino a Caporetto lungo i percorsi della Grande Guerra tra Italia e Slovenia: tra Caporetto, Kolovrat e il Monte Nero per scoprire un museo all’aperto ricco di memorie”, Gaspari, Udine, 2006.
    (Serie e inventario: 683290 Collocazione: GEN.J.8483)

    L’autore propone diciotto escursioni ai luoghi dei combattimenti nell’area tra Caporetto e Tolmino, nelle aspre Alpi Giulie, dove le vette non sono altissime, in assoluto, ma dove il dislivello può raggiungere i duemila metri. Immagino che l’acqua dell’Isonzo, l’acqua color verde smeraldo, faccia sempre da sfondo a queste passeggiate.

    La guida è approntata in un’ottica transfrontaliera visto che alcuni percorsi iniziano in Italia e terminano in Slovenia. Per superare anche le barriere linguistiche, una delle appendici riporta una tavola di toponomastica comparata: su una colonna, l’attuale nome sloveno, sull’altra, le denominazioni usate ai tempi del conflitto ed entrate nella memoria collettiva. Caporetto è l’attuale Kobarid, il Monte Nero è Krn, l’Isonzo, l’Isonzo dove si moriva, in sloveno si chiama ora Soča.

    L’autore dimostra grande conoscenza dei luoghi e dei combattimenti che lì si nono svolti, ma io ho apprezzato questo manuale soprattutto per l’imparzialità con cui riferisce degli eventi bellici e per la sua impostazione europeistica.

    Sappiamo che le trincee visitabili oggi sono state profondamente rimaneggiate rispetto a quelle percorse dai fanti cent’anni fa; la loro attuale ricostruzione rientra anch’essa nella politica della memoria, nell’uso pubblico della storia. È vero, ciò che vediamo è talvolta frutto di restauri e non è esattamente quello che c’era ai tempi: cosa rimane allora, quale il senso di una visita a questi posti? Per quel che mi riguarda, ho rimandato l’esigenza di approfondimento storico e ho trovato una prima risposta nella citazione di un grande montanaro con cui Marco Mantini ha deciso di aprire la sua guida:

    “Quando vado per le mie montagne, ripopolo queste trincee e questi camminamenti, queste postazioni d’artiglieria, di soldati nostri e loro; penso alle loro fatiche, alle sofferenze e alle speranze, ai tanti caduti … vado come a un pellegrinaggio.“ (Mario Rigoni Stern).
    Mariangela

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  15. Quest’anno non si celebra solamente il centenario dello scoppio della Grande Guerra, ma ricorre anche il novantesimo anniversario di un altro evento che ha segnato la storia del nostro paese: l’omicidio di Giacomo Matteotti.

    Di Matteotti avevo solo nozioni scolastiche, ma mi sono imbattuta in un testo, presente nel catalogo di Fondazione per Leggere, che mi permetto di segnalare perché l’ho trovato veramente esaustivo e ben scritto:

    • Gianpaolo Romanato, “Un italiano diverso Giacomo Matteotti”, Longanesi, 2011.

    Il libro è tutto molto interessante e documentato, viene fuori non solo la statura morale e politica di Matteotti, ma ne emergono anche i sentimenti e le passioni non politiche (era lettore incallito e amava molto gli sport). Mi ha colpito in modo particolare il carteggio con la moglie nel quale l’autore ha saputo scovare anche le fragilità e i momenti di scavo introspettivo. La costante di questo scambio di lettere durato molti anni: lei lo invitava alla prudenza e lui – senza di fatto spostarsi di un millimetro dalle sue posizioni, anzi perseverando nelle sua lucida intransigenza – la tranquillizzava.

    Il libro spiega con dovizia di particolari il rapporto di Matteotti con la Grande Guerra e le conseguenze che essa ebbe sulla sua vita: la Grande Guerra fu l’evento che segnò una svolta nella sua esistenza, la sua militanza anti interventista concorse fortemente al suo isolamento politico e umano: era già considerato traditore dagli agrari veneti, in quanto socialista, veniva ora bollato come traditore della patria, in quanto contrario alla guerra.

    Si batté contro l’intervento scrivendone su diversi giornali (scriveva argomentando in modo chiaro e terso perché intendeva rivolgersi a un pubblico che non aveva dimestichezza con la lettura), ma utilizzò soprattutto la sua carica di consigliere comunale di Rovigo per esprimere la sua avversione all’intervento. Gli costò l’arresto e quasi tre anni di confino nella lontana Sicilia.

    Non si può non citare l’articolo, ricordato da tutti i biografi, apparso su “La Lotta” il 21 maggio 2015. L’articolo non tento neppure di riassumerlo perché farei torto a uno che ha visto lontano e che, tre giorni prima dell’entrata in guerra dell’Italia, della Grande Guerra, seppe intuire la tragedia umana e drammatiche conseguenze politiche.

    Mariangela


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